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Premio
Editoria Indipendente di Qualità

SEZIONE NARRATIVA ITALIANA 1° CLASSIFICATO


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pubblicata su LA TRIBUNA

 

titolo: L'Elenco Universale delle cose tristi
collana i quaderni di Cico
autore Italo Gilles Lasalle
ISBN 978-88-95106-41-0
- pp. 153 - euro 10,00 - in copertina, olio su tela di Andrea Tarli , copywrite di Emidio Giovannozzi


Siamo negli anni del Risorgimento, periodo storico di grandi fermenti e rivoluzioni, ma anche di notevoli e fondamentali scoperte scientifiche. Una piccola locanda, la Pensione Marceau, narra le vicende dei bizzarri individui che vi hanno soggiornato tra il 1843 e il 1848. Uno di questi è il signor Ruppert, che riceve posta da tutta Europa: amici che gli segnalano le scoperte e le mode apparentemente più tristi del momento, allo scopo di contribuire a formare un Elenco Universale delle cose tristi.
Ma chi è veramente il signor Ruppert? Lo scoprirà il professor Poustkin, anziano docente, che a sua volta sta lavorando alla compilazione di un Elenco Universale delle parole vuote.
Fra gli altri personaggi, spicca Nadine, la tredicenne dal fare intrigante che gestisce il Café Marceau, apparsa un giorno da chissà dove, sulla cui vera identità si affannano il maggiore Blandino, richiamato alle armi, il reverendo Carraba, parroco del paese, e il notaio Anvrel.

 


 

 
... e di Italo Gilles Lasalle, leggi anche RITRATTO DI DONNA DISTRATTA, il suo atteso, fantasmagorico romanzo
 

 

Brani tratti da L'Elenco Universale delle cose tristi

(...)

Nadine era poco più che una bambina, quando Madame Dancourt scese dal treno tenendola per mano. Era estate. A Saint Michel, quell’anno, il mare sembrava un’enorme ametista, lucida e trasparente. I pesci saltavano fuori dall’acqua e andavano da soli nelle reti dei pescatori. Le trattorie servivano zuppe di pesce fresco e piatti di cozze marinate e ogni altro ben di Dio. I gamberoni arrostivano sulle graticole improvvisate agli angoli delle strade dai giovani turisti. La campagna circostante, dove le gru nidificavano, donava all’aria un inebriante balsamo di rosmarino selvatico e di lavanda, che cresceva a cespugli lungo le vie scoscese che portano alle scogliere. Nadine aveva solo tredici anni. Il sole volgeva alla fine di giugno. Il treno sbuffava nel cielo azzurro una densa nube di vapore bianco e lei stringeva nella mano destra un fagottino con dentro chissà cosa e nella sinistra la mano di Madame Dancourt. Il lungo viale di Saint Jacques, che univa la stazione alla pensione, era affollato. Le botteghe traboccavano di visitatori, soprattutto quelle che offrivano accessori per la pesca e souvenir. Alle cinque del pomeriggio tutto il paese si concentrava nei Café del corso e le signore dagli eleganti copricapo facevano compere nella bottega di Madame Debussy.
Fu così che tutto il paese le vide. Le vide mentre, mano nella mano, attraversavano il corso per recarsi alla pensione. Tutto il paese le vide come se fossero apparse una mamma con al fianco la figlioletta. E se così fosse stato, se si fosse trattato davvero di una madre con la sua bambina, tutto sarebbe stato normale, nessuno avrebbe detto nulla. Anzi, i più avrebbero magari sorriso a quella scena così rasserenante per lo spirito, una scena di quieta vita famigliare dolce e poetica e non avrebbero trovato nulla da ridire. Invece mentre loro passavano per il corso, a passo fiero Madame Dancourt, timida e spaesata Nadine, che si guardava attorno sollevando leggermente lo sguardo dal ciottolato polveroso, tutta la gente usciva fuori dalle botteghe e le persone sedute ai Café si facevano cenni con gli occhi o davano di gomito a quel passaggio. La stessa Madame Debussy interruppe di servire una cliente per uscire fuori e incrociare il suo sguardo perplesso con quello di Monsieur Lacroy, il barbiere che, con le forbici nella mano destra e il pettine in quella sinistra, si precipitò anch’egli sulla porta del negozio e si mise a guardare lasciando una basetta tagliata a metà. Anche Givency, il fornaio, che pure conosceva bene Madame Dancourt, o almeno fino a quel momento aveva creduto, uscì di corsa, rovesciandosi addosso per la furia un sacco di farina e ritrovandosi imbrattato di bianco nel bel mezzo del corso quando Nadine passò. Così che lei, voltandosi, non poté fare a meno di notarlo e sorridere. Fu l’unica cosa divertente che in seguito Nadine ricordò di quell’arrivo, a parte lo sbuffo del treno, il sorriso di Madame Dancourt e la sua bambola dentro il fagottino, che aveva già classificato tra le cose belle.

Fu il notaio Anvrel a parlare per primo di una relazione tra Madame Dancourt e il Barone Bellamy, un pomeriggio verso le sei di qualche settimana dopo, la gente seduta ai tavolini del Café, la luce del giorno ancora viva, la noia che assale e loro tre che come sempre parlano e fumano: il notaio Anvrel, il maggiore Blandino, il reverendo Carraba. Null’altro da fare che chiacchierare, sorseggiare un aperitivo e osservare le persone che passano.
- Una relazione - precisò il notaio, - una relazione a cui si oppose la famiglia di lei, perché il Barone di nobile conservava soltanto il titolo, avendo perso al gioco tutto il patrimonio del casato.
Anvrel raccontò così tanti particolari che per forza la sua storia doveva essere vera.
- Come le saprebbe certe cose, altrimenti? - Aveva dichiarato il maggiore Blandino, mentre tagliava la punta al suo sigaro prima di accenderlo.
Tutti e tre avevano concordato che, in effetti, doveva essere così.
- Non c’è altra spiegazione - aggiunse il notaio Anvrel, - se non quella di una figlia avuta in segreto da una relazione tenuta nascosta.
La storia di Anvrel si reggeva bene in piedi.
- Anche considerando - aggiunse il reverendo Carraba, lontano cugino del Barone Bellamy - che quest’ultimo si è suicidato, proprio per amore. Così si dice!
Adesso tutto tornava, il suicidio, la fuga d’amore, la relazione con Madame Dancourt e la bambina che ormai aveva all’incirca tredici anni.
Le date erano esatte, anche se nessuno aveva mai visto Madame Dancourt con il pancione.
- Ma, si sa - aggiunse il maggiore Blandino, - le donne, se vogliono, sanno nascondere bene certe cose e poi... - sentenziò dopo una pausa studiata che aveva allungato ad arte lisciandosi il baffo destro con l’indice e il pollice della mano destra, - non ricordate forse che per due settimane, tredici anni fa, Madame Dancourt disse che andava a Londra?
Nessuno se ne ricordava ma il notaio Anvrel fu lesto a schioccare le dita:
- A Londra, è vero! - quasi stupito che quella sua fandonia, inventata per scacciare la noia di un pomeriggio qualunque passato al Café, avesse in men che non si dica trovato un così facile seguito.

(...)

Sono la pensione più vecchia di Francia e, ne sono sicura, anche quella con i clienti più affezionati.
Nelle stanze al piano terra, quelle più comode per accedere al giardino, soggiornano da anni diversi ospiti. Alcuni stanno qui da un lustro. Hanno concordato con Madame Dancourt una cifra ragionevole, comprensiva di vitto, alloggio e servizio di lavanderia. Oltre al professor Poustkin e al signor Parton, ci sono i coniugi Fernet. I coniugi Fernet sono sposati da cinquant’anni e dunque sono diventati uguali, come tutti coloro che trascorrono la loro vita insieme.
Hanno identici atteggiamenti, analogo modo di guardare, addirittura gli stessi pensieri, contemporaneamente.
Amore - dice qualcuno; simbiosi, replica il professor Poustkin nel suo Elenco Generale delle parole vuote, quando descrive il comportamento dei coniugi Fernet.
Lui, Leopold, ha anche scritto poesie per lei. Bellissime poesie. Lei, Justine, ha campato facendo la sarta. La vita distribuisce dei ruoli. A casaccio, a volte. Ma loro si stimano reciprocamente. Ognuno conosce il valore dell’altro e stanno assieme da tutti quegli anni. Negli sguardi di lei c’è un sentimento buono, di fiducia, come se la vita potesse ancora cambiare, come se, da un momento all’altro, dalla porta, qualcuno potesse chiamare fuori suo marito anteponendo al nome di quest’ultimo l’unico e solo possibile appellativo: non il signor Leopold, non l’avvocato Leopold, ma il poeta Leopold. Lei ha fiducia nella vita. Lui no. Il suo sguardo è triste, triste come le poesie che scrive per lei. Parlano di inverni, di piogge, di occasioni che fuggono.
Nient’altro.
Non c’è nient’altro da dire su questi due clienti. Perché la vita non è un romanzo. Non dà a ciascuno un ruolo che si incastri con quello degli altri. La vita fa di suo. Ha messo Leopold e Justine in questa pensione e si è dimenticata di loro.

Poi c’è il signor Ruppert. Nella stanza numero tre. Scrive e riceve corrispondenza da tutta l’Europa. Ogni tanto arriva Chichy, il postino, che gli porta una busta. Io guardo. Il timbro è quello di Parigi o di Vienna, addirittura di Cracovia. Una volta ha ricevuto una missiva da Napoli, poi un’altra gli è giunta da Berlino. Passa le giornate a leggere. Ogni tanto sparisce per un mese o due. Poi torna. Quando torna è sempre affannato. Gli si legge negli occhi la paura.
Ieri ha ricevuto questa lettera...

Parigi, 2 agosto 1843

La MACCHINA PER SCRIVERE

Caro Ruppert,
ti rendo partecipe di questa invenzione che penso possa classificarsi al primo posto del tuo Elenco generale delle cose tristi.
Si tratta di un dispositivo inventato da Pierre Foucault e successivamente ripreso da Charles Thurber, composto di leve a ventaglio che, premute, permettono di ottenere la stampa del carattere sul foglio di carta portato da un cilindro.
Immagina: questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo a mano. Sono sicuro che l’invenzione non tarderà a diffondersi. Sembrano tutti molto entusiasti del nuovo mezzo meccanico. Dov’è la tristezza, ti chiederai? Sono sicuro che l’hai già individuata. Quando sento arrivare il postino, io scendo dabbasso e appena mi consegna una lettera, riconosco già dal tipo di scrittura sulla busta il mittente. Tu, per esempio, caro amico, usi degli svolazzi sulla G o sotto le Q. Il mio cuore batte forte. Quel briciolo d’ansia prima dell’apertura, conoscendo l’autore della missiva ma non il suo contenuto, dove andrà a finire? Riceverò una lettera scritta a macchina. Le buste sembreranno tutte uguali. Sono sicuro che questo non è che l’inizio di un appiattimento generale, di una indifferenziazione universale. D’altronde, il progresso tende a omogeneizzare. Le diversità sono difficili da governare, come tu ben sai. Non starò più in ansia aprendo la busta. Non saprò di che si tratta finché non avrò letto la firma. E poi lo spirito. Che fine farà lo spirito? Dal modo in cui hai tracciato le parole, io sono in grado di stabilire quale fosse il tuo stato d’animo nel momento in cui stavi compilando la lettera. Per esempio, l’ultima volta che mi hai scritto, inserendo nel tuo Elenco, al settimo posto, la voce- settembre, perché qualcosa sta per finire-, io ho avvertito nella tua grafia una certa inquietudine. Le vocali non erano più ampie e rigogliose ma quasi meste, inclini alla malinconia, timide e riservate.
So che stai attraversando un momento difficile. Quando il tuo Elenco sembra concluso, ecco che arriva una segnalazione nuova da una qualche città d’Europa e poi un’altra e un’altra ancora e così devi ricominciare daccapo.
Sono al corrente del fatto che l’amico Friedrich da Vienna ti ha segnalato, da ultimo, come cosa tristissima, la Borsa. Ne convengo. Non trovo nulla di più triste della Borsa in questi ultimi tempi. Non ne faccio una questione morale. Né insisto a sottolineare, come fa l’amico Friedrich, il carattere riprovevole dei guadagni o delle perdite derivanti dalle speculazioni finanziarie. è una questione diffusa di dabbenaggine. Ovunque trionfa il soddisfacimento sfrenato degli appetiti malsani che trova la sua soddisfazione nel gioco. Gli investitori ancora non hanno capito che solo pochi iniziati dettano le regole. Si è diffusa l’idea del danaro facile e presto molti si accorgeranno di quanto sia pericoloso il luogo in cui hanno depositato i loro risparmi. Banchieri, industriali e politici hanno creato un mostro che in poco tempo distruggerà le ricchezze di tutti questi creduloni. Per questo mi mette tristezza chi adesso guadagna in Borsa. Non ha ancora capito, questo povero stolto, che presto quel contentino che gli viene concesso è come il formaggio che si offre al topo per farlo cader in trappola.
Mi ritengo tuttavia soddisfatto che nel tuo ultimo Elenco tu abbia inserito, alle prime dieci posizioni, tre voci da me segnalate, e precisamente:

il ricordo distrutto
la noia della domenica
l’appagamento e il dolore

Sono voci dovute all’intuito del mio amico Arthur. L’ho conosciuto a Weimar. Ha scritto alcune pagine in merito che vorrei farti leggere...
A proposito del ricordo distrutto, sappiamo entrambi che è solo per l’incanto della lontananza che vediamo paradisi destinati a svanire come illusioni ottiche qualora potessimo viverli davvero...
Il futuro ed il passato creano fate morgane destinate a procurarci infelicità.
Ogni volta che soddisfiamo un bisogno, eccone subito un altro. La vita si presenta come un continuo inganno, quel che ha promesso non lo mantiene.
Sai cosa scrive Arthur? La vita è un affare che non copre le spese.
Ma quando avessimo appagato tutti i bisogni, che cosa accadrebbe? Saremo assaliti dalla noia, il vero male della borghesia, il supplizio delle classi superiori.
In definitiva, nulla vale la pena del nostro sforzo, perché esso svela l’inganno dell’appagamento, che subito è sostituito da un altro bisogno o, nella peggiore delle ipotesi, dalla noia. Così il dolore irrompe prima come privazione, bisogno, ansia e poi ricompare sotto altre forme: diventa amore passionale, gelosia, ambizione ed inquietudine.
Come dice Arthur, il mondo fa bancarotta da tutte le parti.
Per cui, alla luce dei recenti sviluppi, io credo che la lista, ai primi dieci posti, vada così ridisegnata:

il ricordo distrutto
la noia della domenica
l’appagamento e il dolore
la macchina per scrivere
la Borsa
settembre perché qualcosa sta per finire
il suono dell’accordeon
la macchina fotografica
il seltz
la bambola di stracci

Come puoi notare, le prime quattro voci sono frutto della mia ricerca e mi sembrano meritare la loro collocazione non solo per profondità ma anche per qualità oggettiva.
Dopo diversi anni di collaborazione ritengo esaurito il mio compito, sicuro di aver svolto un ottimo lavoro. Ti prego pertanto di dichiarare la mia vittoria nella classifica generale dei compilatori dell’Elenco Universale delle cose tristi e di inviarmi la somma pattuita.

Tuo Auguste

Saint Michel, 14 agosto 1843

Caro Auguste,
il tuo contributo si fa sempre più interessante e prezioso.
è vero, allo stato attuale, direi che non vi sono dubbi sulla collocazione, nel mio Elenco Universale, delle tue segnalazioni.
Permettimi però di farti notare, anche alla luce di quello che tu scrivi in riferimento alla condizione miserrima della vita, che nulla meglio della macchina fotografica simboleggia la condizione meschina dell'uomo, il suo desiderio di apparire ciò che non è, la sua voglia di mostrarsi secondo la rappresentazione che egli stesso ha o vorrebbe avere di sé.
Pertanto, non ho ancora trovato nulla che meglio possa rappresentare la tristezza, anche se le tue considerazioni filosofiche circa l’appagamento ed il dolore e soprattutto la noia della domenica appaiono entusiasmanti.
Comunque sappi che, dopo tanto tempo, ho deciso che concluderò l’Elenco entro la fine di quest’anno. Lasciamo passare Natale, caro amico, (a proposito, come mai nessuno di voi ha pensato di segnalarmi il Natale come meritevole di entrare nell’Elenco Universale delle cose tristi?) e poi stilerò la classifica finale. Per ora le segnalazioni che ho ricevuto da tutta Europa ammontano a settanta voci, ma alcune sono state eliminate quasi subito. Mi rendo conto che più si va avanti più la selezione diventa difficoltosa. Ti farà piacere sapere che alcune delle voci che tu mi hai segnalato trovano spazio nelle prime dieci posizioni, ma questo non è ancora sufficiente per assegnare il premio.
Riceverai la classifica finale per i primi giorni dell’anno venturo.
A presto.

Tuo Ruppert

(...)

 

Italo Gilles Lasalle nasce a Buenos Aires nel 1960 da genitori italo-francesi emigrati in cerca di fortuna. Cresciuto dalla nonna paterna, all’età di dieci anni viene affidato a un lontano parente ritenuto affidabile e benestante. In realtà quest’ultimo si procura da vivere giocando a poker sulle navi e lo conduce con sé in giro per il mondo, alternando periodi di opulenza ad altri di grande miseria. Lasalle impara presto a cavarsela da solo con i mestieri più disparati. In Australia fa il cameriere, l’aiuto-cuoco, il facchino e lavora persino in un’agenzia funebre. A diciannove anni, in Francia, mentre lavora come aiuto-tipografo in una stamperia del Quartier latin, legge un brano di Rilke che per lui è come una folgorazione: “Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe a scrivere dieci righe che fossero buone”. A quarantatre anni decide che è arrivato il momento di mettere su carta le proprie esperienze. Va a vivere in Belgio, nell’entroterra di una città di provincia. Si chiude in casa e scrive il romanzo autobiografico Per terra ho annusato la vita, con il quale nel 2007 vince il concorso letterario “Il libro parlante” (edito da Il Ponte Vecchio- Cesena).
Dopo L’elenco Universale delle cose tristi, ha pubblicato
Ritratto di donna distratta (romanzo - Cicorivolta 2010).